Il mondo si ferma. È il giorno dell’Africa

Sì, stavolta sì. Oggi ci sia permessa un po’ di retorica, anche perché ci saranno poche altre occasioni in cui sarà possibile usarla senza provare vergogna o abbassare lo sguardo. Oggi succede qualcosa che dovrebbe sembrarci normale e naturale, e invece è rivoluzionario, apre una nuova era. Oggi si inaugurano i primi mondiali di calcio giocati in Africa. Non è roba di poco conto, nemmeno per sogno. E non ci si dica che in fondo si tratta solo di ventidue ragazzotti che corrono dietro un pallone. Oggi allo stadio di Johannesburg si celebrerà qualcosa di molto più vasto e significativo di un semplice rito calcistico. Il calcio (e con esso tutto il mondo occidentale) si inchina alla grande madre Africa, attraversa tutto il suo corpo e arriva fino all’estremità del globo.

Un lungo pellegrinaggio che serve innanzitutto a chiedere scusa. Dalla tratta degli schiavi al colonialismo, dallo sfruttamento geopolitico della Guerra Fredda a quello energetico di oggi, troppe sono le cose che dobbiamo farci perdonare dagli africani. E il solo pensarle tutte insieme ci fa sentire piccoli così e colpevoli, tanto colpevoli. I mondiali sudafricani servano innanzitutto a questo, dunque. Facciamo un lungo e meritato bagno di umiltà e godiamoci lo spettacolo. Perché stavolta non siamo noi i grandi manovratori, non abbiamo organizzato niente, siamo ospiti di un paese che vuole dimostrare (e siamo certi che ce la farà) di aver raggiunto standard di ottimo livello, nonostante tutto, nonostante noi.

Dopo esserci cosparsi il capo di cenere, poi, celebriamo un altro evento di non poco conto. Il Sudafrica libero e democratico di oggi, nato da meno di 20 anni, è un miracolo della storia e della caparbietà umana. È l’incredibile epopea di quella che fino al 1993 era la macchia più vergognosa del pianeta, più delle dittature fasciste sudamericane, più dell’Impero del male sovietico, più dei macellai del sud-est asiatico. L’apartheid resterà per sempre marchiata a fuoco nelle carni dell’umanità come il perpetrarsi della più grande ingiustizia legalizzata mai esistita.

E l’uomo che l’ha sconfitta, con la sola forza delle idee sue e del suo popolo, sarà lì, sugli spalti del Soccer City Stadium: Nelson Mandela*. Ventisette anni di ingiusta galera, centinaia di morti nei ghetti, tre decenni di razzismo di Stato, avrebbero fiaccato la voglia di pace e concordia di chiunque. Non la sua, nossignore. Quando nel 1994, a soli quattro anni dalla sua liberazione, diventò il primo presidente del Sudafrica democratico, Mandela lo disse chiaro e tondo: basta divisione e odi, niente vendette. Il Sudafrica è di tutti, neri e bianchi.

È questo che bisogna celebrare oggi: la rivincità della libertà e della giustizia sull’odio e sulla violenza. I mondiali sudafricani siano una festa di tutti. Colorata, rumorosa, eterogenea e caotica, come solo le feste africane sanno essere. È una festa anche nostra, certo. Proprio perché questo è lo spirito della Rainbow Nation, che non ci odia come ci si aspetterebbe. E come forse meriteremmo. Memori delle nostre colpe passate, però, non faremmo una lira di danno se per una volta, per la prima volta, riuscissimo a non rubare il palcoscenico a chi lo merita davvero. Stiamo seduti in un angolino e gioiamo con loro e per loro.
E allora “waka waka” Africa! Cammina, tutti gli occhi del pianeta sono rivolti a te. Finalmente.

Domenico Naso

*Mandela non è andato al Soccer City per la morte della nipote ieri sera

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