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Un piede tra la prima e la seconda Repubblica

I nomi di Flavio Carboni, Pasquale Lombardi e Arcangelo Martino sono spuntati per gli appalti ai parchi eolici in Sardegna. Assieme ai tre, di cui abbiamo dato ieri ampio risalto, sono stati arrestati dalla Procura di Roma altre tre persone, tutti con l’accusa di corruzione: Pinello Cossu, consigliere Udc della provincia di Carbonia Iglesias e nipote di Carboni; Ignazio Farris, direttore dell’ARPAS (Agenzia Regionale Protezione Ambiente); Franco Piga, commissario dell’Autorità d’ambito per la gestione delle acque.

Secondo la Procura, attorno all’eolico sardo si sarebbe sviluppato un sistema ben mirato per ottenere appoggi politici, in modo da favorire imprenditori amici ed aggirare la norma che tutela il territorio ambientale sardo. Nell’agosto del 2009, la giunta regionale presieduta dal pidiellino Ugo Cappellacci, fece cadere la maggior parte dei vincoli inerenti alla costruzione degli impianti eolici approvati dalla precedente giunta Soru, facendo in modo che l’imprenditoria del vento non avesse quasi nessuna tutela ambientale, e solo nel marzo di quest’anno – probabilmente perché già si odorava un’inchiesta – Cappellacci fece dietro front stoppando completamente tutti gli appalti deliberando a tale proposito.

L’indagine della Procura di Roma è partita grazie ad un’informativa della Direzione Distrettuale Antimafia, ed è coordinata dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dai pm Rodolfo Sabelli e Ilaria Calò. L’indagine si è successivamente allargata fino a scoprire altri nomi eccellenti: Denis Verdini, coordinatore del Pdl; Marcello Dell’Utri, senatore del Pdl e condannato in secondo grado per associazione mafiosa; e l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, indagato per affiliazione camorristica.

Il coordinatore del Pdl Verdini avrebbe intascato una maxi-tangente di 800mila euro da Carboni per raccomandare il gruppo di imprenditori scelto da Carboni e soci presso la giunta regionale sarda di Cappellacci, il quale a sua volta è indagato per abuso d’ufficio per aver aggirato le vie legali nella nomina alla direzione dell’ARPAS di Ignazio Farris, personaggio deciso da Carboni & Co. proprio per aggirare i progetti in mente alla cricca mettendo in moto, tramite la VIA – l’agenzia per la Valutazione di Impatto Ambientale – i piani energetici della fabbrica del vento in Sardegna. Nelle intercettazioni si fanno inoltre i nomi del Senatore Marcello Dell’Utri e dell’ex Sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, come detto entrambi indagati o condannati per reati mafiosi, ma non per questa indagine. Tutto però veniva orchestrato dall’uomo che è stato in bilico tra la Prima Repubblica e la Seconda Repubblica. Quella di Berlusconi.

Flavio Carboni – 78 anni, originario di Torralba in provincia di Sassari – ha un passato di tutto rispetto. Negli anni ’70 ha iniziato la carriera imprenditoriale facendo il discografico e l’immobiliarista, successivamente ha acquisito la maggioranza de La Nuova Sardegna ma anche questo progetto non ha avuto fortuna. Al processo per il fallimento del Banco Ambrosiano è stato condannato a otto anni e sei mesi di carcere e il suo nome è spuntato più volte anche per l’omicidio di Roberto Calvi – il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra – per il quale Carboni è stato accusato di aver venduto la borsa del manager ad un alto prelato dello IOR, la banca Vaticana. Per questa accusa è stato chiesto l’ergastolo ma in primo grado l’imprenditore sardo è stato assolto, è in corso l’appello. Sono moltissimi i casi irrisolti tra la fine della prima e l’inizio della seconda Repubblica in cui si presta il nome di Flavio Carboni.

Durante il sequestro di Aldo Moro, il faccendiere sassarese si sarebbe prodigato nel far intervenire la mafia per salvare lo statista democristiano, successivamente ha riferito che l’organizzazione non aveva interesse a salvare il presidente DC. Nel 1983 scompare misteriosamente la figlia di un dipendente del Vaticano, Emanuela Orlandi. I dati finora raccolti dalla magistratura vanno verso il coinvolgimento della Banda della Magliana, e da un racconto di Sabina Minardi, allora fidanzata con il boss della Magliana Renatino De Pedis, una della auto usate per il rapimento era intestata a Flavio Carboni. Il fatto però non è stato dimostrato.

Flavio Carboni ha un curriculum davvero eccezionale, è stato infatti indagato e imputato in una decina di processi per rapporti con mafia, P2, spionaggi deviati, Licio Gelli, Magliana… un vero record!

L’accusa che lo vede imputato oggi assieme a Martino e Lombardi è scritta nelle sessanta pagine dal Gip del Tribunale di Roma Giovanni De Donato:

«Banda segreta come la P2 per pilotare giudici e politici. Una associazione per delinquere diretta a realizzare una serie indeterminata di delitti caratterizzata dalla segretezza degli scopi e volta a condizionare il funzionamento degli organi costituzionali nonchè degli apparati della pubblica amministrazione. I tre hanno sviluppato una fitta rete di conoscenze nei settori della magistratura e della politica da sfruttare per i fini segreti del sodalizio e ciò anche grazie alle attività di promozione di convegni e incontri di studio realizzate tramite una associazione denominata “Centro studi giuridici per l’integrazione europea Diritti e Libertà“. Una struttura di fatto finanziata e gestita in modo occulto da Carboni. I tre approfittavano delle conoscenze per acquisire informazioni riservate e influire sull’esercizio delle funzioni pubbliche rivestite dalle personalità avvicinate dai membri dell’associazione».

Per quanto riguarda il piano per l’eolico in Sardegna, il presidente della Commissione antimafia Giuseppe Pisanu ha confermato che pure la mafia ne sarebbe interessata:

«L’eolico, secondo alcune ipotesi, non sarebbe altro che il “piede nella porta” attraverso cui conquistare e svalutare i territori di maggiore pregio ambientale per dare il via , una volta minati di pali d’acciaio e svalutati a dovere, alla speculazione edilizia.»

E Flavio Carboni sembrerebbe l’uomo giusto per fare da tramite…

(Giacomo Lagona)

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Ore 18, 20: Apocalisse di mafia

(Ansa)

MILLE CHILI DI ESPLOSIVO POLVERIZZANO UOMINI E MACCHINE, POI COSA NOSTRA RIVENDICA: “E’ IL REGALO DI NOZZE PER MADONIA”

Il botto, la strage e l’ unico testimone racconta: “ho soccorso Falcone, era ancora vivo”; il tritolo era stato piazzato in un sottopassagio pedonale scavato sotto l’ autostrada fra Palermo e Punta Raisi in localita’ Capaci; nell’ esplosione trovano la morte Falcone Giovanni, la moglie Morvillo Francescae gli agenti di scorta Schiafani Vito, Dicillo Rocco e Montinari Antonio.

L’ hanno ammazzato come lui temeva, facendo una strage, usando mille chili di esplosivo ammassati in un sottopassaggio pedonale scavato sotto l’ autostrada fra Palermo e Punta Raisi. Un’ autostrada che in quel punto, a cinque chilometri dalla città, non c’è più perché il boia che ha pigiato il tasto del telecomando alle 18.20 di questo maledetto sabato ha scatenato l’ Apocalisse: un’ eruzione di ferro, terra e massi ha aperto una voragine larga trenta metri e profonda otto facendo volare in un giardino di ulivi la prima auto di scorta con tre agenti e spezzando in due quella guidata da Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia, il bersaglio da eliminare a ogni costo, anche se aveva accanto la moglie, Francesca Morvillo, pure lei magistrato, le gambe spezzate, in agonia come l’ autista che aveva preso posto dietro impugnando una pistola. Sopravvissuti i due agenti di scorta che viaggiavano su una terza Croma blindata, bloccatasi un metro dietro l’auto di Falcone a sua volta sommersa da massi e pietrisco, sospesa sul bordo della voragine con i vetri blindati piegati, il volante schiacciato contro il sedile, un intreccio di fili anneriti sulla cloche e le due scarpe marroni della moglie rimaste sul tappetino.
Erano arrivati insieme da Roma e le tre auto con i sei uomini di scorta li aspettavano come sempre ai bordi della pista, per correre via veloci a sirene spiegate. Ma hanno fatto solo dieci chilometri perche’ questo aveva deciso la mafia che in serata, violando una radicata consuetudine, ha rivendicato l’ attentato con una telefonata al “Giornale di Sicilia”: “E’ il regalo di nozze per Nino Madonia”. E in effetti ieri all’ Ucciardone si e’ sposato il figlio minore del vecchio Don Ciccio Madonia, il patriarca indicato come il mandante dell’omicidio di Libero Grassi. La telefonata per il momento e’ solo un terribile dato di cronaca e niente più, come e’ stato detto dal procuratore della Repubblica Pietro Giammanco al ministro della Giustizia Claudio Martelli e al capo della polizia Vincenzo Parisi giunti ieri sera in una Palermo attonita perche’ stavolta la soglia di un abituale diffidente distacco sembra scardinata, come accadde per Dalla Chiesa e per per gli altri eroi di una citta’ che si difende dimenticando. Ma sara’ difficile cancellare l’ ultima immagine che sembra far sprofondare davvero in una voragine l’ era della speranza. Fra il quinto e il sesto chilometro di questa autostrada che non c’ e’ piu’ si respira l’ odore acre di una devastazione che fa pensare alle stragi dell’Eta o dell’Ira. La bomba ha provocato una pioggia di diverse tonnellate di detriti anche sulla carreggiata attigua che corre verso Punta Raisi investendo in pieno una Fiat Uno verde con due turisti austriaci a bordo e una Opel Corsa sballottolata per cinquanta metri e rimasta sospesa su una fiancata, mentre un’altra auto che seguiva casualmente il corteo di Falcone, una Lancia, si e’ bloccata col muso affondato fra le macerie.

“Sembrava l’Etna. Ho visto una fumata da lassu’ , sono arrivato qui correndo e l’ ho tirato fuori io Falcone”, racconta l’unico testimone, Salvatore Gambino, 30 anni, un uomo smilzo e deciso che in quel momento passava con la sua macchina da un ponte sull’ autostrada, lo svincolo di Capaci. “Ho bloccato l’ auto e l’ ho fatta di corsa. S’ e’ fermata una pattuglia della polizia. Non volevano che mi avvicinassi. Ma era vivo. Anche la moglie si muoveva. E io li ho presi lo stesso…”. E mostra i pantaloni, la camicia, le mani sporche di sangue descrivendo il volo della prima auto, scaraventata verso sinistra, oltre la carreggiata attigua, cinquanta metri piu’ in la’ , fra gli ulivi bruciacchiati dove i vigili del fuoco hanno dovuto lavorare per un’ ora con grandi cesoie per estrarre i corpi a brandelli di tre ragazzi giovanissimi, Vito Schiafani, Rocco Dicillo e Antonio Montinari, il capo scorta, il poliziotto piu’ noto di Palermo perche’ gli piaceva scherzare, andare in giro fiero del suo incarico di angelo custode di Falcone. Si occupava pure lui delle contromosse per prevenire gli attentati. E un paio di anni fa si penso’ proprio a un attentato con esplosivo celato sotto l’ asfalto. Tanto che in via Notarbartolo, davanti all’ abitazione di Falcone, fu murata e deviata una fognatura. Era una delle tante misure di prevenzione saltate in un attimo ieri sera con l’ agguato che lo stesso Falcone aspettava in difesa da dieci anni. Un agguato che fara’ giustizia delle dicerie degli untori, del vocio su una presunta “resa” legata al suo trasferimento romano e smentita con una intervista al “Corriere”: “Io sono un siciliano… Uno o e’ un uomo o non lo e’ . Non ho mai pensato alla morte. Il fallito attentato di due anni fa non ha cambiato nulla nella mia vita”. Magistrati, poliziotti, carabinieri, vigili e infermieri, volontari e curiosi arrivano a centinaia nell’ inferno dell’ autostrada mentre le stradine tutt’ intorno s’ intasano bloccando il traffico fino al centro di Palermo quando ormai il cuore di Giovanni Falcone s’ e’ fermato, come constatano i medici del Civico che lasciano passare i colleghi, il cognato Alfredo Morvillo, sostituto procuratore e fratello di Francesca, Borsellino e gli uomini del “pool”, compreso Gioacchino Natoli: “Non si puo’ stare a contare i morti”.

Corriere della sera del 24 maggio 1992
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