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La fiducia al “processo lungo” passa per una manciata di voti

L’aula di Palazzo Madama ha votato sì alla fiducia sul disegno di legge del cosiddetto processo lungo.
I 160 voti favorevoli sono arrivati da Pdl, Lega e Coesione Nazionale. I 139 contrari invece da Pd, Idv, Udc, Mpa, Api e Fli.

Il provvedimento, che ora passa alla Camera per l’approvazione definitiva, prevede tra l’altro una stretta sui benefici di pena per i condannati all’ergastolo per reati di strage e per sequestro di persona, qualora vi sia stata la morte del sequestrato. Ma al centro della polemica politica c’è la norma che introduce la possibilità per la difesa di presentare lunghe liste di testimoni e di non considerare più come prova definitiva in un processo la sentenza passata in giudicato di un altro procedimento.

Critiche dall’opposizione, dal Pd in particolar modo, per l’assenza del premier Berlusconi dall’aula del Senato. Forte la reazione dei senatori dell’Idv i quali hanno esposto nell’aula di Palazzo Madama dei cartelli con la scritta “Ladri di Giustizia”.

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Alfonso Papa verrà arrestato, Alberto Tedesco invece si è salvato

Da Montecitorio via libera alla richiesta di arresto con 319 voti a favore e 293 contrari nei confronti del deputato del Pdl Alfonso Papa. Il Senato invece boccia l’autorizzazione di arresti domiciliari per il senatore del Pd passato al Gruppo misto Alberto Tedesco con 151 voti contrari e 127 a favore. Nei due rami del Parlamento il voto è stato a scrutinio segreto.

Lieve entità e minor gravità. Differenze e spiegazioni

C’è di bello da quando abbiamo deciso di aprire questo blog, che riceviamo parecchie email di simpatizzanti del Partito Democratico e lettori assidui di questo sito. Spessissimo sono lettere di chiarimenti per il Consiglio comunale di Cordenons o di quello provinciale di Pordenone, a volte, però, sono email di denuncia e di sdegno su quello che succede nella politica italiana. Una di queste l’abbiamo pubblicata per intero proprio qua sotto. Stavolta però c’è l’errore…

Quando il mese scorso il Senato aveva approvato il decreto sulle intercettazioni, erano stati approvati pure undici emendamenti migliorativi alla legge, e tra questi ne è stato inserito uno – il 1707 – che diceva testualmente “non scatterà più l’obbligo dell’arresto in flagranza nei casi di violenza sessuale nei confronti di minorenni se di lieve entità“.

Già dall’indomani in rete c’era stato un delirio di obiezioni sulla “lieve entità” perché si pensava riferito alla pedofilia. In realtà non è così e l’emendamento è giusto perché evita parecchi normali problemi.

In Italia ci sono due articoli, il 609-bis che parla di “violenza sessuale”, cioè rapporti e atti sessuali privi di consenso; e il 609-quater che parla di “atti sessuali con e tra minorenni”, cioè in presenza di consenso, ma comunque vietati perché il consenso del minore non è giudicato valido a causa della sua età.
L’emendamento in questione andava a incidere sull’articolo 609-quater (atti consensuali con e tra minori), e NON sul 609-bis (violenza sessuale).
L’obiettivo dell’emendamento è proprio quello di impedire che se due ragazzi/e vengono beccati a far certe cose da consenzienti, e uno/a dei due è sopra l’età del consenso (14 anni), mentre l’altro/a è al di sotto, quello/a più grande venga immediatamente arrestato. Diverso il caso di violenza sessuale: in questo caso l’aggressore viene arrestato se preso in flagranza.

Che poi l’emendamento sia fatto male, o che lo stesso articolo 609-quater sia da rivedere, in chiave restrittiva o meno, questo è un altro discorso. L’importante è capire che nell’emendamento NON si parlava di “violenza sessuale”: gli articoli di legge sulla “violenza sessuale” sono rimasti invariati.

Invece per quanto riguarda la “lieve entità“, in realtà si tratta di “minore gravità“, ed è un concetto introdotto nel codice penale dal 1996. Nel 1996 la legge sulla violenza sessuale venne cambiata e tra le altre cose da “atto contro la morale” divenne “atto contro la persona”, mentre gli “atti di libidine” vennero legalmente equiparati alla “violenza sessuale”.
A questo punto, però, dato che l’ordinamente legale italiano è progressivo – ovvero non può punire atti di diversa gravità con pene identiche – si introdusse il concetto di “minore gravità“: uno stupro violento con penetrazione viene punito con una pena maggiore rispetto a una palpata o a dei complimenti persistenti e/o offensivi.

Possiamo discutere in eterno se le pene per le semplici molestie siano troppo lievi o troppo pesanti, se sia giusto o meno punire la palpatina alla stregua di uno stupro (il sottoscritto, ad esempio, lo reputa giusto), ma la “minor gravità” (e non “lieve entità”, che non esiste) non ha nulla a che vedere con l’emendamento di cui si è discusso l’uno giugno scorso in Commissione Giustizia al Senato. In quella sede il Senatore del PD Felice Casson ne spiegò perfettamente la sintesi in un suo intervento trascritto dai messi parlamentari (reperibile su senato.it) che vi riportiamo per intero.

Dopo un intervento del senatore CASSON (PD), il quale ritiene che il problema che ha determinato la presentazione dell’emendamento, e cioè la necessità di evitare l’arresto obbligatorio in caso di rapporti fra adolescenti, il senatore LI GOTTI (IdV) ritiene che il richiamo alla necessità di armonizzare il trattamento ai fini dell’arresto obbligatorio in flagranza dei reati di cui all’articolo 609-bis e 609-quater non appare fondato.
Il presupposto di tale asserita necessità, infatti, sembrerebbe essere quello di escludere l’arresto obbligatorio laddove la pena per gli atti sessuali con minorenni è ridotta a motivo della minore gravità del fatto, così come esso è escluso laddove la pena sia ridotta nelle ipotesi di violenza sessuale. Ma i criteri con cui il legislatore ha inserito questo o quel reato nell’elenco di cui all’articolo 380 non sono esclusivamente quantitativi, altrimenti ad esempio non si comprenderebbe il perché siano inseriti fra tali reati il furto in abitazione e il furto con strappo, di cui all’articolo 624-bis, che, nella loro forma semplice, sono puniti con la pena da uno a sei anni.
Ai fini dell’inserimento nell’articolo 380, dunque, deve essere effettuata una valutazione complessa, e non si può invocare pedissequamente la necessità di un uguale trattamento per le ipotesi in cui due reati sono parimenti puniti in maniera meno grave.
Del resto, a suo parere, la stessa esclusione delle ipotesi meno gravi di cui all’articolo 609-bis non appare convincente, dal momento che quella sulla minore gravità di un reato è questione di merito, e dunque non si può pretendere che il poliziotto ne faccia una valutazione all’atto di decidere se procedere o meno all’arresto.
In ogni caso, ciò che il legislatore deve tenere presente, è la necessità di tutelare i bambini, sicché non sarebbe accettabile un generico rinvio alla minore gravità in quanto suscettibile di lasciare in molti casi privi di difesa dei bambini sulla base di una mancata previsione di arresto obbligatorio in flagranza che, con la legge in discussione, finisce per avere effetti anche sulla praticabilità di tecniche di indagine e sull’utilizzabilità di intercettazioni.
Laddove si intenda escludere dall’arresto obbligatorio ipotesi che appaiono meno gravi, il subemendamento 1.707/4, da lui presentato, fa riferimento al comma secondo dell’articolo 609-quater del codice penale, in quanto in quel caso la valutazione sulla minore età è collegata a un fatto oggettivo quale l’età più matura della persona offesa che, sia pure in uno stato di inferiorità psicologica, ha acconsentito agli atti sessuali.

Come potete ben vedere l’emendamento non ha nulla a che vedere con la pedofilia o con le violenze sessuali, e sarebbe ancora più sensato quando si leggono i giornali fare più attenzione a ciò che vogliono dire, e, in caso di dubbi o maggiore informazione, ci si documenti meglio con i potenti mezzi informativi che internet ci offre. Perché se la bagarre della “lieve entità” è nata in rete, è stata sempre la rete a discolpare chi è stato ingiustamente accusato. Fidatevi!

(Giacomo Lagona)

This is for Robert Byrd. Aye!

Alla fine l’età ha avuto il sopravvento. Il veterano dei senatori statunitensi, il Senatore Democratico Robert Byrd, è morto stamattina in un ospedale della Virginia a 92 anni.

La storia politica del vecchio senatore del West Virginia è fustellata di successi fin dalla sua prima elezione alla Camera nel 1952 quando Dwight Eisenhower venne eletto presidente, e quando sette anni dopo venne eletto Senatore con Lyndon Johnson leader del Senato, con cui formò una coppia storica al Campidoglio.

Dal 1989 è stato il senatore decano, per cui più volte Presidente pro tempore del Senato durante i periodi in cui i democratici ne hanno detenuto la maggioranza compresa l’attuale. In questa veste, Byrd è stato il terzo nella linea di successione presidenziale – dietro al Vicepresidente Joe Biden e alla Speaker della Camera Nancy Pelosi – ed aveva inoltre l’incarico di firmare le leggi approvate dal Congresso subito prima d’essere sottoposte all’approvazione del Presidente.

Oggi, nella seduta mattutina del Senato, il lastricato era coperto con un tappeto nero in segno di lutto, il suo banco era ricoperto di fiori bianchi e le bandiere del Congresso erano a mezz’asta. Tra i tanti che hanno espresso il loro dolore in Senato, le parole del leader dei Repubblicani Mitch McConnell sono state le più espressive: “Lo ricordiamo per il suo spirito di combattente, la sua fede costante, e per le volte che ha ricordato a tutti noi lo scopo del Senato. Generazioni di americani leggeranno la magistrale storia che ha lasciato con la sua morte, rileggendo la vita straordinaria di Robert Carlyle Byrd“.

Negli anni ’40 faceva parte del Klu Klux Klan e nel 1964 votò contro il Civil Rights Act – la legge sui diritti civili voluta da JFK e portata a termine dal suo successore ad interim Lyndon Johnson alla morte di John Kennedy. Cionondimeno è stato uno dei maggiori sostenitori del primo Presidente nero degli Stati Uniti. Tantissimi sono gli aneddoti legati al Senatore Byrd: l’ultimo è storia recente.

Durante il primo voto alla riforma sanitaria voluta da Obama, ai democratici servivano 60 voti per farla passare e quindi completare l’iter congressuale finito un paio di mesi fa. Era da poco scomparso il vecchio leone del Congresso Ted Kennedy, e molti democratici speravano che il Senatore Byrd, vecchio e malato, riuscisse a votare e far passare la legge alla prima esposizione. Tulle le volte che Byrd andava in Senato a votare – cosa ormai rara da parecchi anni – erano sempre abbracci e ovazioni sia tra i colleghi di partito, che tra i Repubblicani i quali riconoscevano nell’anziano guerriero un avversario di prim’ordine. Durante il Natale dell’anno scorso, qualche Repubblicano sperava addirittura che morisse così da beneficiare del mancato voto e bloccare la riforma già sul nascere. Il Senatore Byrd non soltanto visse, ma, spinto con la carrozzella dai suoi colleghi senatori, andò a votare e ruppe il protocollo secolare del Senato rispondendo alla chiamata della Presidenza non con il classico «Aye» (il nostro sì), ma con un bellissimo

«This is for my friend Ted Kennedy. Aye!»

La riforma passò e nel mese di marzo divenne legge.

Oggi il veterano dei senatori è morto, e la legge finanziaria che Obama vorrebbe far approvare prima delle elezioni di medio termine è a rischio esattamente come il primo passaggio di quella sanitaria un anno fa. Anche se qualcuno dice il contrario, servono sempre quei fatidici sessanta voti per farla passare al Senato. E Robert Byrd non può più dire Aye.

(Giacomo Lagona)

Popolo e populismo

«Fin da ora ci impegniamo non solo a violare la legge con atti di disobbedienza civile. Quindi continueremo a fare il nostro mestiere. Racconteremo i fatti. E in base alla nostra capacità di selezionarli chiederemo di essere giudicati. Non dai tribunali costretti ad applicare le norme Bavaglio. Ma dai lettori.»

Questa citazione è di ieri, 11 giugno 2010, ed è stata scritta sul Fatto Quotidiano da Peter Gomez contro la legge sulle intercettazioni approvata al Senato col voto di fiducia.

«In una democrazia liberale chi governa per volontà sovrana degli elettori è giudicato, quando è in carica e dirige gli affari di Stato, solo dai suoi pari, dagli eletti del popolo.»

Quest’altra, invece, è datata 29 gennaio 2003 e l’ha detta Silvio Berlusconi in una dichiarazione a reti unificate dopo che la Cassazione aveva deciso di lasciare i processi Imi-Sir e Sme a Milano.

Come vedete entrambi vogliono essere giudicati dal popolo e non dai tribunali, quindi, in apparenza, differenze tra Peter Gomez e Silvio Berlusconi non ce ne sono. Naturalmente ce ne sono e pure tante, ma non per il motivo che dice Gomez.

La prima parte della procedura di approvazione del ddl contro le intercettazioni è stata approvato al Senato con 164 voti a favore e 25 contrari. I parlamentari del Pd hanno invece abbandonato l’aula in segno di protesta: «Questa è la morte della libertà». A parer mio questa NON è la morte della libertà, NON è una legge bavaglio e NON blocca l’informazione. E’ decisamente una cattiva legge, una bruttissima legge che restringe di tantissimo il diritto di cronaca. Ma non è un bavaglio all’informazione. Chiariamo: vietare la pubblicazione delle intercettazioni è qualcosa di talmente ridicolo che sfiora il delirio. Ma questa legge non vieta di fare informazione, dà le regole. Sbagliate.

Ci sono due diverse questioni che si possono ribattere, ed ognuna ha concause completamente diverse tra loro. Io dico la mia.

La parte omicida del ddl è quella delle pesanti sanzioni agli editori e ai giornalisti che violano le procedure pubblicando gli atti processuali non consentiti. Su questo punto esistono due versioni combacianti: quella dei giornalisti e del loro diritto di cronaca sancito anche dalla Costituzione (non è esattamente così, ma la Carta lo rende plurimo), e quello degli editori i quali si vedranno piombare addosso multe salatissime – e anche denunce penali se recidivi –  in caso di inadempienza dei propri dipendenti. Il punto cruciale di tutto il dibattito sta qui, non sul blocco preventivo dei magistrati nel loro mestiere (anche) di intercettori, ma sulle multe ai giornali. Nessun editoriale si è soffermato nell’unico punto su cui dovremmo riflettere: sono i magistrati ad essere più penalizzati, non i giornali.

Gomez ha ragione a chiamare il popolo lettore per farsi difendere, ma se la sua sbrigativa descrizione del ragionevole dubbio si processa così, mi pare un tantino difficile associare il suo pensiero, e del Fatto, a quello del premier in altra circostanza. E poi, capiamoci, Peter Gomez parla per il sito del Fatto, non per il giornale, attenzione.

Qualche giorno fa, dicendo ad un amico le stesse cose che scrivo oggi, mi faceva presente che il sito e il giornale sono la stessa cosa. Sbagliato! Non ci sarebbe differenza se avessimo giornali ed editori affidabili politicamente. Non voglio generalizzare, ma vi faccio un esempio che secondo me è lungimirante. Il ddl passa anche alla Camera – si parla di fine giugno o al massimo al rientro delle vacanze – e quindi diventa legge: da quel momento in poi nessun giornale può più pubblicare atti processuali alla data dell’entrata in vigore della legge – che non è retroattiva. Significa che gli atti con data antecedente possono ancora essere pubblicati senza divieti. Quindi tutti i processi alla data odierna continueranno ad essere legiferati secondo la vecchia legge, mentre i processi che partono dalla data del ddl dovranno sottostare alle restrizioni. Bene, dunque, che succederà?
Succederà che fino a quando i processi più vecchi andranno avanti, tutti i giornali ci si butteranno sopra a pesce, mentre dei nuovi processi si potranno solamente pubblicare i dettagli riassuntivi. La domanda mi viene naturale: i giornali attueranno la politica della persuasione obbedendo alla legge, oppure, come dice Gomez, protesteranno con la disobbedienza civile?

Dopo averci pensato un bel po’ sono arrivato alla conclusione che il web diventerà fondamentale.

Vedremo spuntare un’immensità di nuovi siti web i cui intestatari saranno stranieri e la sede legale del giornale – perché è di questo che sto parlando – è all’estero. Indovinate chi saranno i veri proprietari?
Dato che la legge non vieta la diffusione di intercettazioni se pubblicate all’estero, molti giornali italiani utilizzeranno la tecnica del sito estero per ripubblicare in Italia le intercettazione in barba alla “legge-bavaglio” appena approvata.

Pensateci: i magistrati fanno ore e ore di sciopero e la stampa se li fila solo se l’articolo parla del bavaglio all’informazione; nessun giornale ha pubblicizzato la possibilità di riprendere un’intercettazione se quest’ultima è stata prima pubblicata all’estero; nessun giornale sostiene che nel paese manca una vera libertà d’informazione, ma tutti solidali nel dire che manca la pluralità dell’informazione.

Flavia Perina è la direttrice del Secolo e l’altro giorno, spiegando ai suoi lettori ed elettori perché è stata approvato il ddl, ha così scritto:

Provo a ricordare che qualcosa lo abbiamo cambiato: dai “gravi indizi di colpevolezza” si è passati ai semplici “indizi di reato”; dal divieto assoluto di pubblicazione di atti si è arrivati al diritto, sempre e comunque, alla cronaca per riassunto degli atti; dalla retroattività alla non-retroattività della legge; dai 75 giorni e basta ai 75 giorni prorogabili. Potevamo far meglio? Forse. Abbiamo dovuto inghiottire il rospo? Certo, era nel conto come sempre quando si fa politica anzichè populismo. La terza opzione era non far nulla e limitarci a far parlare gli intellettuali sui nostri siti, evitando di esporci in Parlamento. L’abbiamo scartata.

La legge, a parte le sanzioni agli editori, è completamente diversa da quella approvata alla Commissione Giustizia della Camera in cui si parlava per la prima vera volta – quella sì – di legge-bavaglio. Lo ribadisco, questa è una pessima legge, ma è migliore delle nostre più attese previsioni della vigilia.

Parliamone, ovunque, perché è importante: a sinistra i pensatori capaci e intelligenti esistono, che vengano fuori perché è questo il momento giusto.

(Giacomo Lagona)

E’ fatta!

di Giacomo Lagona

Questa non è una riforma radicale ma è una grande riforma. Questo è il vero cambiamento“.

Obama è riuscito in quello che nessun suo predecessore era mai riuscito prima: una riforma che riguarda 32 milioni di americani senza assistenza sanitaria con una spesa di 940 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Alla mezzanotte di ieri – alle 5 di questa mattina in Italia – il Presidente americano ha tenuto il discorso di ringraziamento ai deputati democratici che hanno votato la riforma da lui fortemente voluta 14 mesi fa. Duecentodiciannove contro duecentododici i voti, tutti democratici e nessuno repubblicano: la condivisione bipartisan chiesta da Obama si è scontrata con la dura legge dei repubblicani e della loro sciocca visione della libertà individuale.

Non è stata facile per il Presidente americano far approvare la riforma, soprattutto visti gli scontri ideologici all’interno del suo stesso partito: Bart Stupak del Michigan è il deputato antiabortista che ha creato più problemi, ma Obama, in una riunione poco prima della votazione, ha firmato un “ordine esecutivo” legittimando il divieto di usare i fondi federali per il rimborso delle spese nelle interruzioni di gravidanza. Questo è bastato al deputato del Michigan per votare la legge sanitaria, e anche se 34 Democratici hanno votato contro per paura delle prossime elezioni di novembre, il loro voto è diventato ininfluente ai fini dell’approvazione. Il voto positivo ha scongiurato pure l’insuccesso di gennaio, quando, dal posto al Senato lasciato vacante dalla morte di Ted Kennedy, i Democratici si sono visti battere da Scott Brown, vincendo contro il procuratore capo del Massachussets Martha Coakley, in un seggio kennediano da oltre 60 anni. Questa sconfitta sembrava affossare definitivamente le ambizioni del Presidente nero, ma l’ingordigia delle multinazionali hanno fatto il gioco di Obama: il meso scorso la Blue Cross, colosso delle assicurazioni statunitensi, ha aumentato le polizze sanitarie del 39 per cento, dando la possibilità a Obama di tornare in auge con la riforma accusando i Repubblicani di speculare con la pelle della povera gente facendo accumulare enormi ricchezze alle multinazionali sanitarie. Da quel giorno la rincorsa alla riforma e iniziata nuovamente. Oggi è finita definitivamente. La riforma verrà votata in Senato a breve, e in settimana Obama apporrà il suo nome a quella che è considerata la prima storica riforma americana.

Cosa cambia. Cambia tantissimo per le società assicurative: vietato rescindere polizze in uso quando un paziente è malato (usata spessissimo per non pagare le rette ospedaliere salate); vietato rifiutare una polizza invocando malattie preesistenti nei bambini; vietato introdurre tetti massimi di rimborsi quando le spese diventano troppo onerose (ad esempio nei pazienti con terapie intensive ad alto costo tipo il cancro); il diritto per le famiglie di mantenere nella propria copertura assicurativa anche i figli sotto i 26 anni, graditissima oggi più che mai con la grave crisi economica; multe salatissime alle aziende con oltre 50 dipendenti che rifiutano l’assicurazione sanitaria ai lavoratori (la media di una polizza costa al dipendente circa 12mila dollari annui).

Quando parte. La riforma avrà validità nel momento in cui Obama la firmerà, e riguarderà, dal 2014, oltre 32 milioni di americani che fino ad oggi – vuoi per il basso reddito, vuoi perché con malati cronici in casa – non ne hanno potuto usufruire. Di questi 32 milioni quasi la metà usufruiranno della Medicare e della Medicaid, la mutua statale per gli anziani e i meno abbienti voluta da Johnson 45 anni fa: la prima va a coprire gli ultra-sessantenni che nel 2005 erano oltre 43 milioni; la seconda gli indigenti che non superano i 29mila dollari di reddito annui con quattro persone a carico – nel 2005 erano oltre 45 milioni gli americani che sfruttavano il programma di Lindon Johnson. I circa 16 milioni di oggi si aggiungono agli oltre 107 mln di americani che già prima della riforma Obama ne facevano uso, mentre l’altra metà sarà costretta a comprarsi una polizza esattamente come adesso, ma scegliendola da un paniere sorvegliato dallo Stato e con sussidi pubblici fino a 6mila dollari annui: questo per far in modo che la polizza non superi il tetto massimo del 9.5 per cento del reddito annuo.

Cosa prevede. La riforma prevede che tutti gli americani beneficino di una copertura sanitaria pro-tempore. Ovvero lo Stato mette tutti in condizione di sfruttare la sanità anche con fondi pubblici fino a quando non siano in grado di potersela pagare autonomamente. Perché, in fin dei conti, la sanità americana rimane pur sempre privata: gli ospedali rimangono a pagamento, gli interventi chirurgici restano a carico del paziente e qualsiasi forma di assistenza sanitaria è comunque privata, tranne il caso in cui le  famiglie beneficiano del programma di assicurazione sanitaria statale dei bambini. Il programma provvede alla copertura sanitaria per più di sei milioni di bambini in famiglie ove i genitori guadagnano troppo per essere inclusi all’interno del programma Medicaid, ma tuttavia non possono permettersi una assicurazione privata. Inoltre, vi sono molti altri programmi federali che beneficiano una popolazione più specifica, per esempio i veterani di guerra o i nativi americani, e molti programmi attivi a livello dei singoli stati o a livello locale, fra i quali più di mille “community center” che offrono cure gratis o a basso costo.

Cosa manca. Manca quella radicale innovazione chiesta da Obama al momento del disegno di legge, perché lasciato cadere ai primi scrosci di accuse fatte dall’estrema destra – lo slogan in voga mesi fa era la “socializzazione delle cure mediche” – per cui l’assenza è di un’assicurazione statale a basso costo disponibile a tutti che poteva far concorrenza a quelle private. In compenso però parte dei costi della stessa verrà riversata sulle aziende farmaceutiche sotto forma di aumenti fiscali, quindi chi prima ne beneficiava adesso è costretta a pagarne la sopravvivenza.

Chi vince e chi perde. La vittoria e la sconfitta è ambivalente. Obama e i Democratici hanno vinto nel medio termine innanzitutto perché la riforma è stata votata e approvata solo dal partito del Presidente, e inoltre per aver dato forma ad una legge che da 50 anni nessun Presidente era mai riuscito a far approvare. I Repubblicani hanno perso perché non sono riusciti – per mille motivi – a votare una legge condivisa con i Democratici in cui tutta la Camera dei Deputati, con coesione e unità, poteva sancirla. Nel lungo termine sia Obama che i Democratici probabilmente pagheranno questa vittoria con una sconfitta – o una sostanziale perdita di seggi – alle elezioni di midterm a novembre. Infatti una buona parte di americani non sono convinti della bontà di questa legge, ragion per cui questo malessere potrebbe danneggiare il Presidente al momento del rinnovo dei 435 rappresentanti della Camera, dei 33 del Senato e dei 36 Governatori dei 50 Stati federali. Insomma, Obama deve fronteggiare un vulcano in eruzione da oggi a otto mesi, e deve sperare nel frattempo che gli americani – soprattutto i beneficiari della riforma – capiscano l’utilità della legge e promuovano il Presidente dopo l’exploit di due anni fa.

Ma questa è un altra storia ed oggi siamo felici per quello che è successo nella lunga notte di Washington.

Scacco al re

di Giacomo Lagona

Obama è salito a Capitol Hill e ha chiesto ai deputati democratici di «resistere» e affrontare quella che potrebbe rivelarsi una votazione difficile dal punto di vista politico: a novembre sono infatti previste le elezioni per il rinnovo del Congresso.

«So che siete sotto pressione. Questo è uno di quei momenti. È una di quelle volte in cui potete dire onestamente a voi stessi: “Maledizione, è proprio per questo che sono qui”. So che sarà un voto duro, ma sono fiducioso perchè sono convinto che sia la cosa giusta da fare. Se ognuno di voi crede che questa legge non sia un miglioramento dello status quo, in cui persone sono costrette a morire senza cure, o a vendere la propria casa perchè non hanno i soldi per pagare il medico. Se credete onestamente dal profondo del cuore che è così, allora votate no. Se invece credete che il sistema attuale non funziona, che le assicurazioni non fanno sempre gli interessi dei cittadini, allora vota questa riforma. Non ti chiedo di farlo per me, o per il partito democratico, ma per il popolo americano, per quelle persone che non ce la fanno e hanno bisogno d’aiuto».

Ci sono voluti nove mesi per far arrivare alla Camera la riforma sanitaria voluta da Obama, e oggi si voterà per approvarla o buttare nove lunghi mesi di lavoro nella pattumiera. Il discorso del Presidente ai democratici non è quello di un politico che vuole far approvare una sua legge, ma il commento di un uomo che crede profondamente in quello che dice. Non sarà un santo – nessun politico lo è, men che meno un presidente americano – ma è un uomo decisamente caparbio e che crede sinceramente in una buona sanità pubblica e non solo ad una sanità assicurativa riservata a ricchi e benestanti. Gli Stati Uniti sono al collasso economico e questa legge avrà una duplice valenza: dare agli indigenti un minimo di copertura sanitaria, e far risparmiare agli States qualcosa come 1000 miliardi di dollari nei prossimi vent’anni. Non è cosa da poco!

«Il presidente Roosevelt ha fatto passare la Social Security, Lyndon Johnson ha fatto approvare Medicare. Oggi Barack Obama farà approvare la riforma della sanità», ha detto John Larson presidente del gruppo democratico della Camera. I Democratici ci credono, e pare che i cinque voti di scarto che avevano fino a qualche giorno fa sono stati rimpolpati nel carniere presidenziale. Ma sono gli indecisi la carta vincente – o perdente – di Obama. La pressione fatta ai democratici riguarda la copertura sanitaria per l’interruzione di gravidanza offerta con fondi pubblici. In questo senso il Presidente Obama sta lavorando su un ipotesi di accordo esecutivo separato dall’approvazione della riforma, tanto che il deputato del Michigan Bart Stupak, dopo aver ricevuto il no dalla speaker della Camera Nancy Pelosi sull’ipotesi di un secondo voto a riguardo, si è detto soddisfatto e da voci interne sembra possibile un suo voto favorevole alla legge presidenziale.

La riforma sanitaria voluta da Obama è la più importante dal 1965, quando Lyndon Johnson fece approvare Medicare per anziani e disabili. Questa riforma porterà l’assistenza sanitaria al 95 per cento degli americani, ossia a quei 32 milioni di statunitensi non coperti dalle assicurazioni, ma soprattutto fermerà la pratica di rifiuto perpetrata dalle assicurazioni a danno di chi è già malato. Oggi sapremo se i 940 miliardi di dollari che servono per coprire un decennio di riforma verranno stanziati sotto forma di approvazione, oppure l’America, ancora una volta, sarà sotto scacco delle lobby di Washington.

«So che questa legge non è perfetta. Non ci sono delle parti che ognuno di voi avrebbe voluto che ci fossero. Questo vale anche per me. Però è il più grande intervento legislativo per migliorare la vita degli americani. Per questo sono convinto che passerà. In fondo è per questo che sono entrato in politica, che mi sono sacrificato. È che credo nel mio paese e credo – ha concluso Obama – nella nostra democrazia».

La Camera oggi voterà separatamente sulla versione della riforma approvata dal Senato – che, se passerà, diverrebbe legge una volta firmata da Obama – e su un secondo pacchetto di modifiche, sponsorizzato dai democratici alla Camera.

[Update] Leggo adesso lo schedule della Camera per oggi (aggiungete 5 ore per avere l’ora italiana):

2 p.m.: The House will debate for one hour the rules of debate for the reconciliation bill and the Senate bill.

3 p.m.: The House will vote to end debate and vote on the rules of the debate.

3:15 p.m.: The House will debate the reconciliation package for two hours.

5:15 p.m.: The House will vote on the reconciliation package.

5:30 p.m.: The House will debate for 15 minutes on a Republican substitute and then vote on the substitute.

6 p.m.: The House will vote on the final reconciliation package.

6:15 p.m.: If the reconciliation bill passes, the House will immediately vote on the Senate bill, without debate.

Il Governo dei record

Legittimo impedimento, via libera del Senato "Stop" alle udienze per premier e ministri

Sì del Senato alla fiducia posta dal governo sull’articolo 1 del disegno di legge sul legittimo impedimento: l’Aula di Palazzo Madama ha votato con 168 sì, 132 no e 3 astenuti. L’articolo 1 stabilisce, tra l’altro, che per il presidente del Consiglio e per i ministri costituisce legittimo impedimento a comparire nelle udienze dei procedimenti penali, come imputati, il concomitante esercizio di una o più attività di governo. Il corso della prescrizione, comunque, rimane sospeso per l’intera durata del rinvio.

Il legittimo impedimento, prevede ancora l’articolo 1 del ddl, si applica anche ai processi penali in corso alla data di entrata in vigore della legge. Esito-fotocopia per l’articolo 2: il Senato ha concesso la fiducia con 168 voti a favore, 132 contrari e 3 astenuti. Ottenuta la seconda fiducia, sono iniziate le dichiarazioni di voto. Durante le quali i senatori del Pd hanno inscenato una protesta: mentre parlava, a nome del gruppo, il senatore Nicola Latorre, gli altri hanno sventolato una copia della Costituzione. Boato dai banchi della maggioranza.

Con la doppia fiducia del Senato sul ddl che introduce il legittimo impedimento, il governo Berlusconi passa in pochi giorni a quota 31 fiducie (l’ultima, la numero 29, risale a pochi giorni fa, il 4 marzo, posta sul decreto Enti locali alla Camera). Con oggi, il Berlusconi IV nel suo anno e dieci mesi di vita “stacca” il Berlusconi II che nella XIV legislatura in quasi quattro anni (per la precisione 3 anni e dieci mesi) aveva fatto ricorso alla questione di fiducia 29 volte.

Chissà quale altro record ci riserverà per il futuro questo governo…